(ANS – Ulaan Bataar) – La terza e ultima tappa del viaggio alla scoperta della realtà salesiana in Mongolia proietta lo sguardo sul futuro. Dopo 13 anni il lavoro che resta da fare è ancora moltissimo, ma la motivazione dei missionari a vivere una “misura alta di vita cristiana” rimane intatto.
“Fatto salvo il libero esercizio all’interno dei locali della nostra parrocchia, il Sistema Preventivo nelle nostre scuole e nell’orfanotrofio è privo della Religione, come uno sgabello a tre gambe cui ne manca una. – riporta don Carlos Villegas, capo-spedizione dei missionari salesiani nel paese – Quando le leggi della terra accolgono la Ragione e l’Amorevolezza, ma non liberamente la Religione, non si arriva a lavorare in profondità per un uomo ‘pienamente vivo’”.
Un’altra sfida per i salesiani è l’isolamento, “ma non la solitudine – come ribadisce don Villegas – perché l’isolamento ha a che fare con la realtà geografica o sociale, ma la solitudine non sussiste per chi coltiva la profondità della propria fede ed ha una sana consapevolezza della propria consacrazione”.
Sfide naturali con cui è necessario doversi confrontare sono anche l’urbanizzazione dilagante, con circa un terzo della popolazione concentrata nella sola capitale, e l’alta percentuale di disoccupazione, frutto di una società post-socialista che dispone di risorse, ma non ha l‘esperienza per sfruttarle adeguatamente.
Ampi margini di sviluppo sono invece disponibili nell’ambito della pastorale della comunicazione. I Mongoli amano leggere e il paese detiene uno dei tassi di alfabetizzazione più alti del mondo. Finora però i Salesiani non sono riusciti a padroneggiare la lingua e diventare una reale potenza comunicativa; bisogna perciò progredire in questo campo, tanto amato da Don Bosco e da San Francesco di Sales.
Un altro importante compito da perseguire è favorire una fede autentica nei Mongoli. Racconta con amarezza don Villegas: “Ho sorriso di frustrazione quando uno dei nostri collaboratori mongoli, dopo aver tradotto un libro su Don Bosco, mi ha detto: ‘Amo Don Bosco, ma non Gesù’”. Simili incoerenze, come altre incomprensioni e sospetti verso ciò che è cristiano, hanno radici lontane e spesso dipendono dalla cattiva fama che il cristianesimo ha acquistato per effetto di una predicazione che in tempi passati è stata molto aggressiva, specie da parte protestante.
Ma don Villegas non nasconde neanche che per svolgere un buon lavoro missionario, in un simile contesto, ai missionari sono richiesti una chiarezza e un impegno fuori dal comune: “è vero che la salute è un criterio immediato per la missione ad extra e inter-gentes. Ma non sono il freddo gelido della Mongolia, né il cibo, o il popolo o la cultura o la lingua mongola che possono determinare il rientro anticipato dei missionari. La difficoltà sta nel vivere una misura alta di vita cristiana”.
Il cammino missionario è comunque ormai avviato e il suo cardine sta in primo luogo nell’“interazione”. Conclude don Villegas: “ è la mancanza d’interazione che genera l’ignoranza e con l’ignoranza arrivano il sospetto e l’animosità. Ma dopo 13 anni che interagiamo con centinaia di genitori, studenti e funzionari di governo, lo vediamo: arrivano da noi con molti pregiudizi e quando partono, specialmente gli alunni che stanno con noi per tre anni, vanno via non solo con dispiacere e ammirazione, ma anche col desiderio di raccomandare a parenti e amici di mandare qui a crescere i loro figli”.
Pubblicato il 05/07/2013